Pietrapertosa vive tra le guglie delle Dolomiti lucane, appoggiata ad anfiteatro alle “rocce magre / dove i venti e le nebbie / danno convegno di silenzi”, come scrive Mario Trufelli.
Il luogo sarebbe piaciuto a Jean- Jacques Rousseau, quando diceva di aver “bisogno di torrenti, rocce, pini selvatici, boschi neri, montagne, cammini dirupati ardui da salire e da discendere, di precipizi d’intorno che m’infondano molta paura”.
Tutto questo c’è a Pietrapertosa, che si presenta bruscamente al visitatore con un’imponente massa rocciosa, porta d’ingresso all’abitato, circondato, o protetto, da dirupi scoscesi, monti brulli o verdi di boschi.
Intorno alle guglie d’arenaria, antropomorfe (ognuna ha un nome), planano lenti i falchi, quasi per distrarre lo sguardo dalla parte più misteriosa e affascinante del borgo, l’Arabata, che conserva nei vicoli ripidi e nel nome le tracce dei dominatori arabi, guidati dal principe Bomar.
La storia ci chiama dai ruderi del castello, con il trono della regina Costanza scavato nel sasso, e gli antichi culti agrari del Mascio, lo sposalizio tra i due alberi più belli del bosco.
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